VScapire la politica estera dell’Italia richiede di stravolgere alcune idee ricevute, in particolare l’europeismo disinteressato di Roma. Certo, la retorica anti-Europa e anti-immigrazione dell’ex vicepresidente del consiglio Matteo Salvini rappresenta una rottura nella tradizione diplomatica italiana. Ma un primo cambiamento era già avvenuto durante il secondo mandato di Silvio Berlusconi (2001-2006). Per comprendere questo cambiamento e le sue ripercussioni, dobbiamo fare un passo indietro.
La situazione diplomatica della Penisola alla fine della seconda guerra mondiale si muove in un ambiguo mezzo che condiziona sia la diplomazia che il sentimento nazionale transalpino. La sconfitta italiana e la caduta del fascismo nell’estate del 1943, così come la scomparsa della monarchia, pesavano meno nelle menti delle persone del trattato di pace del 1947, imposto dagli Alleati. Le sue clausole molto dure, in particolare le amputazioni territoriali e la perdita delle colonie africane, furono sentite come una punizione da gran parte della popolazione, le cui illusioni imperiali del periodo fascista non furono estinte da tutti. Le frustrazioni diplomatiche, sommate alla difficile situazione economica, contribuirono a favorire il voto conservatore che mise in pericolo la scelta della Repubblica nel giugno 1946. Inoltre, il mantenimento, all’interno del Ministero degli Affari Esteri, di un personale reclutato sotto il Progetti europei.
Le clausole del trattato di pace del 1947, imposte dagli Alleati, erano viste come una punizione da gran parte della popolazione.
Sarebbe sbagliato fare dell’atlantismo e dell’europeismo dei governi guidati dal democristiano Alcide De Gasperi (1945-1953) e dai suoi successori la prova di una cancellazione di ogni considerazione di interesse nazionale. Al contrario, l’ancoraggio all’Occidente dell’Italia è soprattutto un mezzo perché il Paese riacquisti il suo rango e ne approfitti. L’Organizzazione di (…)
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