Cos’è questo tormento nostalgico che ti invade leggendo queste pagine e che persiste una volta chiuso il libro? Eppure non sei mai stato a Pantelleria, e forse ne hai solo sentito parlare come di un luogo mitologico, quasi fantastico.
Terra remota, estrema, emergente dalle onde del mare a forza di eruzioni, figlia di forze telluriche e primordiali, Morgana destinata forse a sprofondare ancora, secondo i capricci di imprevedibili furie ctonie. Un’isola senza facili imbarchi o spiaggia, soggetta a venti estenuanti e onnipresenti. Confine di terra, avamposto dell’Europa in Africa, enclave marina da dove lo sguardo intercetta le luci dei porti tunisini.
Un’isola dove la sopravvivenza ha sempre comportato la sottomissione alle leggi della natura e ai suoi capricci. Un’isola “isolata”, a volte per settimane, quando la rabbia degli elementi vieta ogni approdo e sbarco.
Luogo in cui le case voltano le spalle al mare, privandosi del panorama più bello, alla ricerca di un’intimità ma asservita all’irrefrenabile intrusione del vento. Ma un territorio dove, nonostante l’assenza d’acqua, i fragili agrumi fioriscono e fruttificano, protetti e piovigginati da alte mura ancestrali, catturando l’umidità e la rugiada. Una comunità isolata ma accogliente nei confronti degli stranieri, siano essi ricchi notabili in cerca di “buen retiro”, o migranti bloccati sugli scogli.
Siamo necessariamente nostalgici di un luogo come Pantelleria, come lo siamo del tempo perduto dell’innocenza. Ancora di più se si è governati dall’ispirato racconto di Calaciura. Una storia composta da storie dal sapore di leggenda, e leggende dal sapore di verosimiglianza. Un racconto dove lo sguardo etnologico e sociologico si mescola alla poesia e dove il vento implacabile finisce per trasformarsi in una divinità maliziosa, ricordando in questo l’acqua del mare che insegue la gente per le vie di “Borgovecchio”.
Anche nelle pagine di questo breve libretto, forse un testo minore ma non meno ispirato dei precedenti, Calaciura si conferma uno dei più importanti scrittori italiani, sicuramente quello con la poetica più vibrante, generosa e densa dell’umanità.
PS: Come ormai è mia abitudine, segnalo la bellissima traduzione di Lise Chapuis, che testimonia ancora una volta il legame inscindibile del duo autore-traduttore nella genesi di un testo di eccellenza.
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